La sfida della generazione del pollice

Published: Febbraio 23rd, 2021

Spesso si dice che “la generazione del pollice” abbia messo il cervello in tasca, alludendo alla esternalizzazione di funzioni proprie dell’essere umano, ad esempio la memoria, oggi sempre più affidata a smartphone e tecnologie varie. Non c’è dubbio che la rivoluzione digitale abbia generato un salto epistemologico ed è per questo che la vera sfida si gioca oggi sulla capacità della scuola, e dei docenti in particolare, di fare qualità innovando.  Il contesto in cui viviamo oggi è quello che il filosofo Luciano Floridi (in “La quarta rivoluzione”) ha definito infosfera, uno spazio ibridato dove non c’è più differenza tra essere on line od essere off line: non ci colleghiamo più per disconnetterci e tornare al mondo reale, siamo sempre connessi. Ed è chiaro che in questo contesto appare sempre più surreale la pretesa di usare i tradizionali strumenti della scuola per preparare i ragazzi ad un mondo sempre più lontano da quello dei libri di testo.

Da tempo, grazie alle tecniche di neuroimmagine ed alla risonanza magnetica funzionale, possiamo non solo conoscere ma addirittura vedere quali sono le aree cerebrali che si attivano quando si apprende qualcosa. Poiché la plasticità cerebrale dura quanto la vita – e infatti si parla di long life learning – è necessario accendere un focus su chi insegna: qualunque sia l’età dei discenti, è importante che i docenti abbiano cognizione di come funzioni il cervello umano per proporre metodi di insegnamento capaci di creare nuove connessioni sinaptiche tra neuroni e di consolidarle. Non ci chiede agli insegnanti di diventare neuroscienziati ma solo di tenere a mente che, quando impariamo qualcosa, il nostro cervello crea nuove sinapsi tra i neuroni. Se manteniamo attive queste nuove “piste” tra neuroni, l’apprendimento rimane; se invece apriamo nuove connessioni ma poi facciamo in modo che gli studenti non le usino più, è chiaro che decadranno. In altre parole: per una scuola capace di rispondere alle sfide attuali servono docenti capaci di “usare” la plasticità cerebrale in modo consapevole per mettere in forma la didattica attraverso le nuove tecnologie per l’apprendimento. Banalmente, se pensiamo ad impostare una verifica utile al consolidamento delle nuove informazioni, non possiamo non ricordare che il consolidamento delle nuove connessioni tra neuroni ha un ciclo di circa 24 ore e che dobbiamo pertanto tener conto di questi tempi fisiologici. Altrettanto importante è portare i discenti a comprendere i meccanismi neuronali che presiedono all’apprendimento: è questa la strada per  far capire loro come funziona il proprio cervello, per imparare a rispettarlo nei suoi meccanismi di funzionamento, per “imparare ad imparare” in modo consapevole, per dar loro la possibilità di autogestire il tempo nell’esplorazione delle proprie potenzialità, perché capiscano che non è utile studiare decine e decine di pagine all’ultimo momento ed anche per gestire il tempo del riposo, dato che anche in questa fase la riattivazione neuronale contribuisce a consolidare l’apprendimento.

E’ chiaro che la sollecitazione esercitata dall’uso continuo dei nuovi strumenti sulla plasticità neuronale produce modifiche nel linguaggio, nei livelli di attenzione e concentrazione. In questo contesto, preziose sono le innovazioni tecnologiche perché comportano riorganizzazioni sensoriali e cognitive che richiedono ai docenti una riconfigurazione del tradizionale setting didattico.  Cosa ne pensano i docenti è risultato evidente nel report 2020/2021 realizzato da Promethean, sul rapporto tra tecnologia e scuola: “l’86% degli educatori ritiene che in futuro la tecnologia continuerà ad essere abbinata a risorse e metodi di insegnamento tradizionali”, solo “il 61% ritiene che il personale riceva una formazione completa e il supporto necessario per l’utilizzo della tecnologia” e soprattutto “oltre la metà dei Presidi suggerisce che si spende troppo poco per la tecnologia”.

Del resto, i momenti di passaggio sono sempre difficili. Accadde persino con la scrittura: Platone nel Fedro racconta come il dio Theuth presentò la scrittura al re Thamous capace di rendere gli uomini più sapienti. Di segno opposto la risposta del re, secondo cui la scrittura avrebbe avuto l’effetto di far perdere la memoria. In modo analogo, con l’avvento di smartphone e nuove tecnologie si è riproposta la diatriba di cui si accennava all’inizio di questo post, circa lo spostamento di funzioni superiori dell’uomo all’esterno dell’uomo stesso, che sia in un navigatore o in uno smartphone poco cambia. Ma se la mente distribuisce all’esterno parte del proprio carico di lavoro, penso ad esempio alle calcolatrici ed al grande dibattito sull’usarle o meno a scuola, vuol dire che altre potenzialità trovano lo spazio per liberarsi facendo emergere nuovi stili di pensiero che andranno incontro ad un consolidamento culturale. In questo quadro, le nuove tecnologie e i media hanno un potenziale altissimo, se usati con saggezza strategica dai docenti liberano nuove potenzialità. I nuovi media sono tecnologie cognitive capaci di coinvolgere i processi interni della mente ed è chiaro che, per funzionare in modo didattico, il loro uso non possa prescindere da una buona conoscenza del cervello.

Negli ultimi anni abbiamo visto, nel campo delle scienze dell’educazione, l’affermarsi del binomio pedagogia- neuroscienze e la consapevolezza, per dirla con Frauenfelder (in “Pedagogia e biologia. Una possibile alleanza”), che il problema della conoscenza sia un problema altamente educativo. Siamo entrati nel paradigma bioeducativo dove la relazione è tra mente, cervello ed organismo intesi come sistema in continua relazione con l’ambiente e, nella sua totalità, auto organizzante. In questa ottica, siamo in un nuovo campo di indagine che apre possibilità pluridisciplinari e dinamiche nel mondo della scuola. Il focus viene quindi posto su un senso di pedagogia condiviso da più discipline, nel quale l’elemento biologico valorizza quello emozionale e relazionale, finalizzato a costruire percorsi di formazione cuciti su misura delle specificità del sistema della persona per arrivare, come dice Sabatano (in “Come si forma la memoria. Ipotesi sperimentali di ricerca bioeducativa”) ad architetture cognitive individuali. Usciamo quindi dalla frammentazione delle discipline e dei saperi per entrare in un orizzonte di senso transdisciplinare.

Altro fattore chiave è la motivazione legata alle emozioni. Dalle cosiddette “neuroscienze affettive”, nate negli anni Settanta per capire come le emozioni nascano nella parte più preistorica del nostro cervello (il paleocortex), alle ricerche portate avanti dalle più avanzate neuroscienze è ormai consolidato il ruolo fondamentale delle emozioni in tutte le funzioni del cervello. La soddisfazione, ad esempio per aver svolto bene un compito, rilascia dopamina, il neurotrasmettitore legato alla motivazione che consolida le sinapsi. Motivo per cui è importante gratificare chi apprende, qualunque età abbia. Ogni persona ha un profilo emozionale unico, ognuno reagisce a modo suo, ma è chiaro che le tecnologie, se situate su un processo di stampo bioeducativo aprono alla scuola nuove grandi possibilità. Siamo chiaramente in un campo post-costruttivista centrato sull’embodied cognition e quindi sull’uso degli ambienti tecnologici per affrontare il viaggio nella conoscenza, dallo scrivere testi a più mani in modo cooperativo agli esercizi interattivi, nella sperimentazione di compiti autentici e dinamici lontanissimi dal modello dell’apprendimento come elaborazione di informazioni o, peggio ancora, dal modello trasmissivo cattedra – banco.

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