Ricordate Second Life lanciato il 23 giugno 2003? Quando il fisico Philip Rosedale mise in piedi la sua idea, forse non immaginava che il mondo da lui ideato avrebbe raggiunto nel 2013 un milione di residenti: un milione di persone reali che, attraverso un avatar tridimensionale, si teleportavano ovunque nelle mappe, socializzavano con altri residenti a tal punto da scambiarsi bene e servizi dando vita a un’economia virtuale interna e a specifici modelli di business con la valuta virtuale Linden Dollar, che poi si traduceva in dollari reali e ovviamente in euro. La fortuna di Second Life è diminuita negli ultimi anni ma molte università ed aziende l’hanno usata come ambiente di apprendimento e di sperimentazione, quindi con obiettivi educativi e formativi: Harvard, Oxford ma anche le Università degli studi di Salerno, di Torino, della Calabria, di Bergamo, di Milano, di Urbino, di Teramo, di Perugia ed e-Campus. Oggi tanto si parla di metaverso inteso come il futuro di internet, come processo inevitabile della convergenza digitale: un universo digitale attraversato da avatar, un passo avanti rispetto alla realtà virtuale.
Anche se è sulla bocca di tutti da quando Facebook ha annunciato un progetto con questo nome ed ha cambiato in “Meta” il nome della holding del Gruppo che controlla Facebook, Whatsapp, Instagram e gli Oculos, il termine Metaverso non è stato coniato da Zuckerberg, ma nel lontano 1992 da Neal Stephenson, in un libro appartenente alla cultura cyberpunk:“Snow Crash”. Metaverse era già per lui una realtà virtuale dove si è rappresentati in tre dimensioni attraverso il proprio avatar.
Anche Microsoft ha annunciato di integrare il Metaverso nella piattaforma Teams con una funzionalità chiamata Mash: in sostanza, si potrà creare un avatar per partecipare alle riunioni di lavoro. Si tratta di vivere esperienze: nel metaverso si accede tramite visori 3d e si potrà fare di tutto, nel bene e nel male. E qui è necessario un approccio prudenziale, soprattutto quando si parla di minori che già hanno difficoltà a muoversi nel mondo reale.
Che impatto avrà nella loro vita una dimensione altra dove poter fare molto di più di quel che già fanno, superando ogni limite? Se nel metaverso si può volare, saranno capaci, una volta rientrati nella vita vera, di vivere la pazienza, l’attesa, di controllare gli effetti delle proprie azioni? La struttura del metaverso è spazio-temporale, la stessa dell’universo fisico: quanto saranno capaci i ragazzi di entrare ed uscire dal metaverso alla realtà? In un tempo in cui il must, in tutti i settori, dal turismo alla scuola, è l’experience, il “fare esperienza diretta” possiamo forse definire storicamente pronti i tempi per il metaverso ma si può dire lo stesso per le singole persone? Bisognerà essere formati per usare questo nuovo mondo, e se è vero che la Realtà Virtuale, nel campo dell’insegnamento, può apportare significativi miglioramenti ed essere davvero efficace, è anche vero che non possiamo sottovalutare l’impatto emotivo ed educativo del metaverso.
Sicuramente utile per il team building, dalla medicina al pilotare un aereo, ad imparare a guidare una strumentazione, alla neuroriabilitazione virtuale eccetera ma è importante anche chiedersi il motivo del potere attrattivo del metaverso: a quali bisogni ricercati, impliciti, latenti o non soddisfatti risponde? Nello scegliere il proprio avatar – che, già nel lessico richiama la religione induista: Avatar è un dio che incarna un corpo fisico – la nostra identità sarà talmente forte da non cadere nell’idealizzazione di sé stessi e dei propri poteri, in un falso sé che potrebbe modificare i comportamenti nel mondo reale? Bisognerà fare molta attenzione per aiutare giovani a capire come far convivere il realismo virtuale con la realtà, senza sacrificare il concreto bisogno di muoversi, di vivere con persone reali, in attività reali. Già per l’impatto dei social sui giovani è stato coniato il termine PIU (Problematic Internet Use) che descrive condotte comportamentali patologiche legate allo strumento ed è logico aspettarsi che conseguenze maggiori potrebbero arrivare da strumenti che hanno un grado di immersività superiore a quello dei social. Alla Stanford University, negli Stati Uniti, Jeremy Bailenson e il suo team hanno esaminato la sindrome di “vergenza e accomodamento” cioè lo sforzo degli occhi e del cervello per riequilibrare i riferimenti spaziali rilevati nella corteccia visiva nella parte posteriore del cervello e poi indirizzati ad altre regioni del lobo frontale, questo per compensare la differenza tra lo stimolo visivo proveniente dallo schermo del casco, a pochi centimetri dall’occhio, e l’immagine risultante. Per questo diversi produttori di caschi consigliano un tempo massimo di esposizione al virtuale di mezz’ora, anche in considerazione degli eventuali mal di testa e nausea dovuti al sistema vestibolare dell’orecchio interno: il corpo è seduto su una sedia mentre la realtà virtuale invia messaggi di altra natura, paradossali e contraddittori, alla corteccia visiva. Un altro team di ricercatori, a Berkeley, sta studiando il rischio miopia che potrebbe derivare dall’impatto del casco sulla vista stessa.
Phil Reed, professore di psicologia alla Swansea University specializzato in dipendenza digitale ha scritto che, alla luce delle ultime evidenze scientifiche, il metaverso potrebbe impattare sulla salute mentale degli utenti promuovendo psicopatologie legate alla depressione, ideazioni paranoidi e psicosi in modo più intenso rispetto ai classici social media.
Al momento è presto per trarre conclusioni, ma di certo noi adulti dobbiamo governare il nuovo mondo che poniamo a disposizione dei giovani, in tutte le sue potenzialità.